*ATTENZIONE - CONTIENE SPOILER*
L’ultimo di Tarantino è un western che mostra grande fedeltà al genere, ponendosi (almeno inizialmente) su di una linea stranamente statica per gli standard del genio del Tennessee. Per carità, sin da subito le inquadrature ci proiettano in un’incantevole (ma al contempo inquietante) ambientazione innevata, riprendendo uno dei più grandi spaghetti western del cinema di genere italiano “Il grande silenzio” di Corbucci. Con quest’ultimo TH8 condivide anche la crudezza dell’opera, che mostra come il selvaggio west, del resto, è dei cattivi (da ricordare in IGS la morte, alla fine, del protagonista “buono” per opera del cattivone interpretato da Klaus Kinski).
L’estetica tarantiniana è presente in tutte le sue forme sin dall’inizio. In effetti, contrariamente all’opinione comune, in quasi tutti i film di Tarantino il ritmo per la gran parte è lento e la verbosità eccessivamente criticata a questo film è, in realtà, un elemento tipico tarantiniano. Ciò che sorprende del ritmo in quest’opera sono, invero, i suoi cambiamenti. Quentin ci ha abituati a finali lenti, mentre la grande esplosività dell’action, in questo caso, è presente alla fine dell’opera. È presente in maniera eccessiva, quasi superflua, come Tarantino ha abituato il pubblico. È nei piccoli cambiamenti che va apprezzato TH8, dapprima un western che si trasforma, poi, in giallo, poi ancora in film d’azione splatter, dai toni grotteschi.
L’elemento costante è la tensione, che nell’emporio arriva ad un livello talmente elevato da non necessitare più una spannung narrativa. Questa tensione da thriller (alimentata da alcuni artifizi tecnici come il flashback post-uccisione del generale interpretato da Bruce Dern) è unita ad un senso di oppressione nell’emporio, che rimanda un po’ alla macchina di baviana memoria in Cani Arrabbiati (a cui Tarantino già con “Le iene” si ispira non poco).
I personaggi non sono semplici cattivi, sono dei veri bastardi senza gloria e sicuramente la tensione si avverte proprio per la potenziale pericolosità di essi, che viene mostrata nella violenza di alcuni loro gesti improvvisi che Tarantino ci mostra a poco a poco, ma con grande intensità (ad esempio nelle improvvise e violentissime gomitate del boia Kurt Russell contro la sua detenuta Leigh).
La pericolosità, ma soprattutto la falsità, dei personaggi è, inoltre, emblema dell’America attuale (a questo proposito, TH8 è probabilmente il film più politico di Tarantino). Non dimentichiamo che l’opera è ambientata poco dopo la guerra di secessione e quegli 8 bastardi si fanno influenzare dalla diversità delle razze e si scagliano l’uno contro l’altro, quando è in realtà l’alta politica il vero nemico e il fautore di tanta violenza gratuita (stupenda la trovata nel finale quando il personaggio interpretato da Goggins si aggrappa in punto di morte alla lettera di Lincoln, pur sapendo che essa è un falso, prima di buttarla via quando sopraggiunge la consapevolezza).
“Uomo nero, inferno bianco” è il titolo di uno dei capitoli in cui è divisa l’opera. Questa frase, oltre a mostrare la già citata rivalità razziale, enfatizza l’inferno imbiancato dalla neve ed in particolare dalla bufera. Durante la bufera l’emporio assume l’interessante doppio ruolo di rifugio ed al contempo trappola, in quanto l’inferno si trova al di fuori (la bufera di neve), ma anche all’interno (la pericolosità dei personaggi).
Tarantino descrive la potenza della bufera in alcune piccole scene apparentemente non funzionali. Quando i personaggi tracciano il percorso dalla stalla all’emporio sono ostacolati dalla bufera, la quale è enfatizzata da una ripresa fissa, accompagnata dalla potenza della musica di Morricone che si sposa perfettamente con le immagini: i suoi bassi sono onnipresenti.
È, invece, rappresentata da piccoli movimenti della mdp la minaccia presente nell’emporio, che si può solo assaporare, è come una presenza invisibile ma facile da avvertire, nonostante lo spettatore non sia mai catapultato del tutto all’interno dell’emporio. Esso si limita a “spiare” gli 8 personaggi tramite le inquadrature che Tarantino impone al pubblico, che resta sempre in trepidante attesa di qualcosa che, però, accadrà alla fine, nel momento in cui lo spettatore smette di aspettarla.
Molto interessante in TH8 il fatto che si arrivi quasi a fine film, con le carte oramai svelate e la consapevolezza che non c’è nulla di interessante da vedere, ma restando comunque incollati allo schermo. Dopo il lungo flashback, infatti, lo spettatore ha capito come sono andate le cose, la parte più interessante è svelata ed è ormai quasi palese che i personaggi scoperti da Samuel L. Jackson (due dei quali interpretati dai grandi Michael Madsen e Tim Roth) moriranno tutti, non fosse per i McGuffin di cui Tarantino fa uso, ma che sono solo illusioni, come la valigetta di Pulp Fiction (un esempio è l’aver inquadrato precedentemente le armi poste sotto i tavoli nell’emporio dai personaggi che, però, si rivelano inutili).
Il motivo per cui a fine film lo spettatore continua a fissare lo schermo è certamente l’action inaspettata, quell’orgasmo che il pubblico ha pregustato per tutto il film fino ad arrendersi. E’ proprio con la resa dello spettatore che Tarantino, poi, mostra ciò che esso si aspettava precedentemente e facendolo nel suo stile pulp, come solo un amante di quel tipo di cinema sa fare.