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"A torinói ló": la lente che fa da filtro per uno sguardo oltre la rete.


È una definizione sicuramente assai astratta, ma anche funzionale. Per quanto l’oggetto di questa definizione, infatti, preveda solitamente una messa in scena, esso è una realtà effettiva del mondo e, in quanto tale, in grado di percepire il senso di esso o quantomeno ricercarlo con mezzi nuovi. Raramente esso si preoccupa di giungere alla verità assoluta, ma è possibile pensare (o anche illudersi, questione di punti di vista) che possa giungere alla verità. A tali affermazioni, la domanda del lettore più perspicace sarebbe: “Che cos’è il cinema?” La risposta di Bèla Tarr, regista bulgaro del film “A torinói ló” (“Il cavallo di Torino”) sarebbe, in realtà, un’altra domanda: “Che cos’è la vita?”. Nell’indagine ontologico-cinematografica compiuta da Bèla Tarr, dunque, si interpone quella esistenziale. Da qui, “A torinói ló”. Ispirandosi ad un episodio della vita di Nietzsche in cui il filosofo rimane turbato dalla violenza di un cocchiere verso il suo cavallo, questo lungometraggio in bianco e nero del 2011 immagina la vita del cavallo, di un vetturino e di sua figlia nei sei giorni seguenti all’episodio. Con Bèla Tarr il cinema si trasforma in realtà, o meglio egli ci dimostra che il cinema è la realtà stessa. Il vetturino e sua figlia compiono gli stessi gesti incessantemente, giorno dopo giorno: costretti a lavorare, a mangiare… a vivere.

Possibilità di uscire dalla trappola in cui sono rinchiusi i personaggi di questo film, o meglio gli attori di questa vita, sembrano non esserci. In pratica, la prospettiva di libertà stessa sembra una trappola. Infatti, nonostante nel film vi siano degli zingari che tentano di emigrare in America e, dunque, nonostante vi sia un elemento che potrebbe essere riconducibile ad una nuova prospettiva di vita, essa è, invero, mera illusione. In tutto ciò, l’estetica incanta chi osserva quest’opera, che pur non riuscendo a coglierne inizialmente il senso, viene man mano trasportato dalle immagini e dai suoni generati dalla visionaria mente del regista, il quale muove la mdp in maniera perfetta. Infatti, i piano sequenza di Tarr raggiungono il culmine dell’estetica visiva, la quale fa compagnia ad una musichetta e a dei rumori della natura in cui l’uomo è immerso e di cui è vittima. L’esperienza sensoriale che avverte lo spettatore, per quanto magnifica, non regge il confronto con la crudele sfida intellettuale che il regista impone: la vita dell’uomo è una lotta inutile, un lento viaggio verso l’apocalisse. Costei, infine, è la vera protagonista dell’opera: l’apocalisse. Essa è racchiusa in un ultimo frame nero, preceduto da un’angosciante accettazione umana e dalla rinuncia definitiva da parte del vetturino e di sua figlia a nutrirsi. L’oscurità che ne deriva, per quanto inspiegabile e straziante, potrebbe essere, in realtà, una liberazione dalla trappola prima citata. In effetti, l’opera, nonostante la sua conclusione assoluta e inevitabile, lascia, nel suo soggiogare lo spettatore, alcuni interrogativi esistenziali a cui difficilmente si può immaginare risposta non pessimistica. Non ci sono quasi mai dialoghi (eccetto un lungo monologo in cui è predetta l’apocalisse) e la visione non è né semplice né per tutti. Anzi, essa si rivela anche più ardua di Satantango dello stesso Tarr (nonostante la bellezza di 7 ore e 15 minuti di film). Resta il fatto che la possibilità di vivere l’esperienza di visionare un’opera del genere, probabilmente, è essa stessa una risposta alla domanda iniziale.

Fonti: Wikipedia


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